Infratel al capolinea. Mancano risorse e obiettivi

In pancia alla società presieduta da Tudini 338 mln di euro ma quelli realmente disponibili sono solo un centinaio

Pubblicato il 28 Set 2009

Alcune cose fatte negli anni passati sono importanti, gli obiettivi
di oggi molto ambiziosi, ma come farà a mantenere le sue promesse?
È la domanda che molti si pongono a proposito di Infratel Italia,
la società creata nel dicembre del 2003 dal ministero delle
Comunicazioni e da Sviluppo Italia (oggi Invitalia) per combattere
il digital divide nel nostro paese. La sua missione, portare reti
di telecomunicazioni a banda larga nelle aree meno sviluppate, era
ed è di importanza strategica per l’economia nazionale. Per
questo si pensava che lo Stato non avrebbe badato a spese.
“Contiamo di investire un miliardo di euro”, disse al momento
del varo l’allora amministratore delegato Francesco Chirichigno.
Era quella la cifra che si riteneva necessaria per portare la
connessione a Internet veloce a chi ha lo svantaggio di vivere in
aree troppo marginali per attirare gli investimenti dei gestori
telefonici. Dopo sei anni sono stati spesi sì e no 100 milioni, e
soprattutto non c’è alcuna certezza sulle disponibilità
future.

Anche se ben lontano dai progetti iniziali, il lavoro fatto in
questo arco di tempo è tutt’altro che trascurabile. Infratel
Italia ha scavato cavidotti per circa 2.000 chilometri, cablando in
fibra ottica 293 centrali in tutte le regioni del Mezzogiorno (in
particolare in Sicilia e Puglia, dove sono state realizzate reti
rispettivamente per 594 e 383 chilometri), abilitando così
all’offerta dei servizi a banda larga una popolazione di circa un
milione di persone, che altrimenti ne sarebbe priva.
Per dare corso ai suoi piani, la società presieduta (dal 2007) da
Domenico Tudini ha avuto attribuzioni per 338 milioni di euro
contenute nelle leggi finanziarie fra il 2004-2008 e nelle delibere
Cipe del 2005 e del 2006. Ma si tratta in gran parte di soldi
teorici. Quelli resi effettivamente disponibili dovrebbero essere
(nessuno può dirlo oggi con precisione) un centinaio, compresi i
20-30 sbloccati alla fine di luglio dal ministero dell’Economia
che hanno consentito di effettuare pagamenti attesi lungo da tempo
(con la comprensibile sofferenza dei creditori) per lavori già
eseguiti.

Per farsi un’idea di quanto la realtà si sia allontanata dalle
speranze del 2003, basti pensare che la prima convenzione fra
Infratel e Sviluppo Italia era di soli 4 anni, dal momento che
quell’arco di tempo si riteneva sufficiente a portare a termine
il lavoro. Due anni dopo si è capito che ci voleva ben altro e nel
2005 si è scelto di rinnovarla per altri 20. Anche perché i
progetti sono diventati nel frattempo sempre più ambiziosi, a tal
punto che oggi è lecito dubitare del loro realismo. Il piano Caio
sulla banda larga assegna a Infratel l’obiettivo di realizzare
ben 700 centrali nei prossimi tre anni. Ma come si fa a prendere
sul serio una tale previsione, considerando che nei primi 3-4 anni
di attività, in cui le cose sono andate tutto sommato abbastanza
bene, ne ha portate a termine 293?
Un altro ampliamento è avvenuto sull’area di intervento,
inizialmente limitata al Mezzogiorno e ora estesa a tutte le zone
d’Italia in cui non ci sono le condizioni di mercato per i
servizi a banda larga. Nel 2008 il ministero dello Sviluppo
economico ha sottoscritto accordi di programma con Emilia Romagna,
Lazio, Lombardia, Liguria, Marche e Umbria. Ma questo stesso
cambiamento crea un problema aggiuntivo: sono utilizzabili i fondi
Fas, vincolati alle regioni meridionali? E in caso contrario da
dove verranno le risorse necessarie?
La complessiva incertezza dell’orizzonte strategico, del resto,
ha già fatto sentire i suoi effetti sulla vita di Infratel negli
ultimi anni. Non si sono viste finora vere sinergie con la Pubblica
amministrazione. Non si sono messe a fattor comune le reti, non si
sono sfruttate le competenze e le dotazioni di Infratel, ad esempio
per rendere più efficienti e meno costosi i servizi di
telecomunicazioni di scuole o università nelle zone dove sono
state fatte le reti. E soprattutto gli interventi compiuti e i
soldi spesi non hanno dato alcun contributo all’apertura del
mercato. 

Le nuove connessioni sono andate quasi esclusivamente a vantaggio
di Telecom Italia, che fornisce servizi ai clienti sulle centrali
attive. E i concorrenti? Nessuno, a parte rarissime eccezioni, si
è fatto avanti per prendere in carico le linee o acquistare
servizi all’ingrosso (con l’unbundling o con il bit strema
access), perché tutti hanno ritenuto che in quelle aree non ci
siano margini per far concorrenza all’ex monopolista. Ma se è
così vuol dire che la scelta degli interventi meriterebbe di
essere valutata con più attenzione. L’impressione, insomma, è
che questa società non abbia ancora trovato la sua giusta
collocazione. Logica vorrebbe che il governo la valorizzasse con
mezzi e strategie industriali all’altezza dei suoi obiettivi.
Altrimenti, tanto vale chiuderla.

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