Parlerà cinese la banda larga italiana? È una voce che si
rincorre, pure se ancora priva di conferme (ma nemmeno di
smentite), dopo che Lou Jiwei, presidente di China Investment
Corporation, uno dei più ricchi fondi sovrani al mondo con oltre
400 miliardi di dollari di massa amministrata, è venuto la scorsa
settimana in Italia per colloqui al massimo livello. Tra le
personalità con cui Jiwei si è incontrato figurano il ministro
dell’Economia Giulio Tremonti ed i vertici della Cassa Depositi e
Prestiti. La notizia è stata rivelata dal Financial Times.
Secondo il giornale inglese, la visita della delegazione cinese in
Italia ha fatto seguito a quella compiuta a Pechino due settimane
fa dal direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli. Nella
capitale cinese Grilli (che siede anche nel consiglio di
amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti) ha incontrato i
vertici della Cic e di China State Admninistration of Foreign
Exchage che amministra gran parte delle riserve cinesi in valuta
straniera, attorno ai 3.200 miliardi di dollari.
Secondo il Financial Times, al centro dei colloqui vi è un
possibile intervento della Cic a supporto dell’Italia acquisendo
titoli del debito pubblico italiano (ne possiede circa il 4%, ma
potrebbe salire sino al 10%).
Tuttavia, l’intervento finanziario cinese potrebbe avere anche
impatti industriali che riguardano gli investimenti in banda larga
e la realizzazione delle reti di nuove generazione.
Il superamento del digital divide e la diffusione delle reti in
fibra ottica in tutto il Paese doveva essere uno dei fiori
all’occhiello del ministro dell’Economia Paolo Romani. Lanciato
in pompa magna al tempo in cui Romani era ancora viceministro alle
Comunicazioni, il progetto doveva mobilitare una ingente massa di
risorse private (i costi della trasformazione completa delle reti
fisse viene stimato fra i 10 e i 14 miliardi di euro) grazie allo
stimolo di un investimento pubblico attorno agli 1,2 miliardi di
euro. La situazione del bilancio pubblico ha poi ridotto
l’impegno pubblico ad 800 milioni salvo poi farne perdere del
tutto la traccia.
Ma la banda larga potrebbe presto riapparire nell’agenda della
politica italiana. Come ha sottolineato in una “segnalazione”
al Parlamento e al governo il presidente di Agcom Corrado Calabrò,
gli investimenti nelle reti di telecomunicazione rappresentano un
formidabile fattore di crescita del Pil. A loro volta, gli
operatori telefonici stanno investendo ben oltre i tre miliardi di
euro per le licenze Lte, un terzo in più delle previsioni iniziali
del governo. In qualche maniera i ricavi aggiuntivi, o almeno una
parte di essi, dovrebbero tornare al settore, come auspica Calabrò
e come prevede la stessa legge che ha lanciato l’asta delle
frequenze Lte.
Ecco dunque che, mentre Tremonti si prepara a fare il tagliando
alla crescita, gli investimenti in banda larga potrebbero ritornare
d’attualità. Ma come? Grazie al supporto cinese della Cic che
potrebbe agire in coordinamento con Cassa Depositi e prestiti.
Proprio l’istituzione presieduta da Franco Bassanini è infatti
stata individuata dal governo come il veicolo finanziario destinato
a guidare gli interventi pubblici nelle nuove reti. Per consentire
l’operatività di Cdp nel settore del broadband è stata
addirittura modificata la legge istitutiva. Cassa Depositi e
Prestiti ha lanciato a luglio un fondo strategico con una capacità
di investimento iniziale di 4 miliardi di dollari che si punta ad
accrescere sino a 7 miliardi di dollari grazie alla partecipazione
di nuovi investitori, anche esteri. I fondi per il broadband,
dunque, non le mancherebbero, se si creassero le condizioni
giuste.
E i fondi non mancano nemmeno ai cinesi del resto. Tant’è vero
che già a inizio 2010 avevano mostrato molto interesse ad
investire nelle reti broadband italiane. Lo avevano detto
chiaramente sia durante una visita in Italia del direttore generale
della Cic, Xiqing Gao, sia durante un viaggio in Cina di Romani.
Almeno cinque istituti di credito cinesi, come Bank of China e
China Development, aveva spiegato l’allora viceministro al
rientro in Italia, erano disponibili ad investire nelle nuove reti.
In che modo? Finanziando imprese cinesi che ottenessero commesse.
Lo schema potrebbe tornare adesso di attualità.
Anche perché non è un mistero per nessuno che i due maggiori
fornitori cinesi di apparati di telecomunicazioni hanno progetti
ambizioni di crescita in Italia: da un lato Huawei che già sta
rafforzando la sua presenza con risultati molto significativi e che
ha appena lanciato la sua nuova divisione Enterprise; dall’altro
Zte che, pur arrivata per ultima, non nasconde di volere giocare un
ruolo di peso, al punto che si è addirittura parlato di un suo
interesse per Italtel.