Aziende hitech prossime alla fuga dalla Cina? Non esattamente, ma i
tempi d’oro in cui si poteva produrre tecnologia a basso costo
nel colosso asiatico sembra siano definitivamente chiusi.
L’ondata di scioperi dei lavoratori cinesi che chiedono (e in
molti casi ottengono) aumenti salariali e la decisione di Pechino
di apprezzare lo yuan renderanno più dispendioso fabbricare in
Cina.
Si tratta di un’evoluzione che non manca di ricadute positive. Ci
saranno infatti vantaggi per i consumatori cinesi, che vedranno
aumentare il loro potere d’acquisto, e indirettamente per le
aziende occidentali, che potranno vendere i propri prodotti, oggi
quasi tutti destinati all’esportazione, anche sul mercato della
Tigre asiatica, un bacino nuovo e potenzialmente enorme.
"Da un lato potrebbero aumentare i prezzi al consumo dei beni
made in China importati dagli Stati Uniti”, spiega Paul Tiffany,
senior lecturer della Haas School of Business dell’Università
californiana Berkeley. “Dall’altro, gli stessi prodotti che le
aziende americane fabbricano in Cina per esportarli negli Usa
potrebbero diventare alla portata dei consumatori cinesi”.
Occorre considerare che negli Usa i consumi personali rappresentano
circa il 70% del pil, mentre in Cina non vanno oltre il 35%. Anche
alle aziende occidentali può far comodo la nascita di una ricca
classe media cinese.
Tuttavia, ai vantaggi per le aziende occidentali si associa la
necessità, prima o poi, di ridisegnare le proprie strategie legate
alla supply chain e alle sedi di produzione, perché uno yuan più
forte fa salire le spese (e la decisione di Pechino potrebbe aprire
la strada a mosse simili da parte di altri Paesi asiatici, come
Corea del Sud, Taiwan e Giappone, facendo ulteriormente salire il
costo del produrre in Asia).
"Se il trend prosegue, e penso che sarà così, avrà un
effetto significativo sulle aziende della Silicon Valley. Quale
sarà la scelta, allora? Alzare i prezzi o diversificare i siti di
produzione, allontanandosi dalla Cina e indirizzandosi altrove, in
altri Paesi dell’Asia o in Sud America?”, chiede Sung Won Sohn,
economista della Martin V. Smith School of Business and Economics
at Cal State Channel Islands.
La diversificazione dei siti produttivi (verso zone interne della
Cina, dove costa meno produrre che nelle città sul mare in pieno
boom economico, oppure in altre nazioni, come il Vietnam) sembra,
nell’immediato, la risposta più probabile. L’aumento del costo
del lavoro – con la conseguente riduzione dei margini di profitto
per i contractor e i loro clienti occidentali – sarà la molla
immediata, ancora più dell’apprezzamento della valuta. Basti
pensare che la Foxconn, uno dei maggiori contractor di aziende
occidentali, tra cui Apple e compagnie della Silicon Valley, ha
deciso di raddoppiare i salari dei suoi lavoratori per porre freno
a una drammatica ondata di suicidi e altre aziende tecnologiche
stanno seguendo la stessa direzione, spinte dagli scioperi.
La stessa Foxconn ha fatto sapere che sta considerando di
trasferire parte del lavoro a Taiwan. Quanta, il più grande
produttore mondiale di laptop, potrebbe costruire uno stabilimento
in Vietnam o in un altro Paese emergente. Un recente sondaggio
condotto a Hong Kong dalla Federation of Hong Kong rivela che molte
aziende stanno pensando di lasciare i grandi centri produttivi
della Cina: il 37% intende portare la maggior parte della propria
produzione fuori dalla regione del Delta del Fiume delle Perle e
oltre il 63% vuole lasciare la provincia del Guangdong, perché i
costi sono troppo alti.