L'EDITORIALE

Nella guerra dei proxy salvate il soldato Tim

Lo scontro finanziario per il controllo non deve far dimenticare le prospettive industriali in gioco. A partire dal futuro della rete fissa di accesso. E della stessa Telecom che resta un asset importante del Paese

Pubblicato il 28 Mar 2018

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Su Telecom Italia (che ormai ha anche cambiato nome in Tim) si è scatenata l’ennesima bufera. Si potrebbe osservare che non c’è niente di nuovo sotto il sole: da quando è stata privatizzata, nell’ormai lontano 1997, la maggiore società telefonica italiana è stata oggetto di assalti e sconquassi a catena.

Apparentemente non siamo che alla ripetizione di un trito dejà vu. Ennesimo frutto avvelenato di una privatizzazione che si è dimostrata una frittata come peggio non si poteva fare. Lo Stato si è disinteressato del tutto della Telecom abbandonandone la proprietà e lasciandone il controllo ad un riluttantissimo nocciolino duro di imprenditori nostrani, a tutto attenti tranne che alle telecomunicazioni. E lo si è visto ben presto.

Quella che era la sesta società telefonica al mondo fatica ormai a galleggiare sopra quota venti nella classifica internazionale. Un tempo culla dell’innovazione tecnologica nelle tlc, ora fatica a tenere il ritmo del futuro. Presente allora in moltissimi Paesi, dall’Asia al Sud America, ora difende a fatica i ridotti dell’Italia e del Brasile.

Nocciolino duro, capitani coraggiosi col benvenuto del governo D’Alema, accorciamenti costosi della catena di comando all’epoca Pirelli, il dominio di Telefonica all’insegna del “fermi tutti”, il controllo di Vivendi col motto “convergenza rete-contenuti”: il gruppo è stato preda di assalti e contro-assalti, strategie e contro-strategie, interessi e contro-interessi col risultato che oggi è uno sbiadito e lontanissimo ricordo l’antica gallina dalle uova d’oro e dagli ambiziosi investimenti come il progettato piano Socrate che – nella seconda metà degli anni Novanta! – si proponeva di cablare in banda larga l’Italia fino agli appartamenti.

Telecom resta pur sempre il principale operatore italiano nella banda fissa ed il secondo (dopo WindTre) nel mobile, ma è anche un gruppo industriale malato di 25 miliardi di debito che ne hanno paralizzato e tuttora ne condizionano pesantemente le possibilità di investimento e sviluppo.

Questo in un’epoca in cui la banda ultralarga si sta dimostrando fondamentale come l’elettricità nel secolo scorso: per i cittadini e ancor più urgentemente per le imprese. Ed in una mutata prospettiva di business in cui è necessario lanciare nuovi servizi capaci di far fronte all’ineluttabile calo della redditività del trasporto di voce e dati.

In tale quadro, c’è bisogno di chiarezza strategica, continuità di gestione, valorizzazione dell’interesse dell’azienda e del complesso dei suoi azionisti. La guerra dei proxy fra Elliott e Vivendi per il controllo della società potrebbe al contrario essere prodromica di ulteriori sconquassi nella vita di un’azienda che negli ultimi cinque anni ha visto alternarsi ben 4 amministratori delegati, ciascuno con strategie e priorità assai diverse.

C’è uno scontro per il controllo di Telecom, ma c’è anche uno scontro sul suo futuro. Il peso di Vivendi in Telecom è fortissimo e certe scelte – dalla individuazione di alcuni manager a particolari indicazioni operative – fanno a ragione sospettare dell’ennesimo conflitto di interessi irrisolto. In questo contesto, non stupisce che Elliott cavalchi la battaglia opposta della public company e della semplificazione della struttura del capitale.

Ma non c’è solo la finanza. Conta, anzi è fondamentale, la prospettiva industriale. I punti di contatto tra i due contendenti sembrano maggiori di quanto non possa apparire dallo scontro finanziario in atto. Ad esempio, entrambi sostengono la separazione della rete di accesso di Telecom, pur se in prospettiva diversa: scorporo o scissione? Percorso solitario o traguardo verso la fusione con Open Fiber? C’è veramente spazio per due operatori ultrabroadband nelle aree di mercato o andando separati si faranno male entrambi col rischio di un indebolimento generale, a partire dagli investimenti nella fibra? Quanto può costare la conversione del capitale di risparmio e come non tradurla in ulteriori eccessivi appesantimenti finanziari? Al termine ci saranno ulteriori spezzatini (Rete, Sparkle, Inwitt, magari il Brasile) o Telecom ha ancora un futuro come gruppo?

Purtroppo, la guerra in atto per il controllo non offre particolare spazio agli approfondimenti industriali. Ma non va dimenticato che sul piatto c’è il progetto di separazione volontaria della rete fissa di accesso che l’amministratore delegato Amos Genish ha notificato ad Agcom. La separazione della Rete (in ballo da troppi anni!) ci pare un punto fisso da preservare nonostante tutto, sottraendola agli esiti degli increti destini societari. Si tratta di un’infrastruttura fondamentale del Paese, non a caso è soggetta a golden power.

Il governo, oggi dimissionario, ha espresso con chiarezza la sua posizione e ha messo in atto una decisa strategia per spingere verso l’infrastrutturazione a banda ultralarga del Paese. Sarebbe bene che queste impostazioni strategiche rimangano salde e coerenti anche a fronte della legislatura appena iniziata e la rinnovata incertezza del quadro di comando di Tim. La quale, nonostante tutto, resta uno dei più importanti asset industriali del Paese. Di giravolte le telecomunicazioni italiane hanno sofferto troppo.

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