L'EDITORIALE

Non c’è pace per Tim, tutto da (ri)fare

Dopo gli spagnoli di Telefonica e i francesi di Vivendi ora tocca agli americani di Elliott. Che ci sia in ballo o no una scalata poco conta, di certo l’operazione è “ostile” agli attuali azionisti. Chi c’è dietro? Politica o mercato? E quanto conta la newco con Open Fiber?

Pubblicato il 19 Mar 2018

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La “rivoluzione” francese in Tim non ha fatto in tempo nemmeno ad essere annunciata – il nuovo piano industriale è stato svelato appena qualche giorno fa – che sono arrivati gli americani, anzi l’americano Paul Singer, a scompigliare di nuovo i giochi.

Il Fondo Elliott, scavallando il 5% (tanto vale la partecipazione) ha ufficialmente acquisito il diritto di mettere bocca sulla composizione del Consiglio. E ne vedremo delle belle visto che la governance attuale non piace affatto al fondo americano e non ne ha fatto mistero. Certo non ci si aspettava in questa fase di stallo politico, con il governo ancora tutto da fare, che su Tim si riaprisse la partita del “controllo”. Non si sa nemmeno chi saranno i nuovi referenti politici e ci si muove dunque a prescindere. Sembrerebbe, ma il condizionale è d’obbligo, che questa volta a prevalere sia la logica di mercato. In parte lo è trattandosi di un’azienda privata i cui destini – a parte il golden power esercitabile e già esercitato sulle infrastrutture “critiche” – non competono più da tempo allo Stato italiano.

Non si può però prescindere dalla vicenda Vivendi-Mediaset, questa sì dai toni decisamente “politici” visto che di mezzo c’è il destino di una delle maggiori aziende italiane e che Berlusconi per quanto abbia perso smalto ha un suo peso specifico economico nonché politico nel nostro Paese.

Di mezzo c’è anche, seppur indirettamente, il tema Open Fiber. La fiber company “voluta” da Renzi se è vero che si è aggiudicata i bandi Infratel per posare la fibra in tutte le aree bianche del Paese è anche vero che dovrà inevitabilmente fare i conti con la sostenibilità del business soprattutto sul lungo termine. L’ipotesi di una “fusione” con gli asset di Tim, quelli che saranno “scorporati” sulla base del piano appena annunciato, va ben oltre i confini della mera speculazione tant’è che si lavora al progetto dietro le quinte ormai da mesi checché ne dicano i protagonisti. E anche riguardo al terzo bando Infratel, quello che vede protagoniste Puglia, Calabria e Sardegna, la questione andrebbe al di là degli intoppi burocratici legati al ritardo dell’amministrazione calabrese. A quanto risulta a CorCom in ballo ci sarebbero le risorse messe a disposizione, troppo esigue per rendere la gara appetibile. Sarebbe questa la “vera” posta in gioco: la Calabria, sempre secondo quanto risulta a CorCom starebbe facendo il braccio di ferro per dirottare i propri fondi sui voucher o su altre azioni più “utili” alla digitalizzazione. Il rischio dunque è che il “tesoretto” in ballo nella gara non sia conveniente per gli operatori interessati a partecipare, Open Fiber in pole position. Insomma si comincino a fare i conti seriamente con le risorse a disposizione.

I destini della rete di Tim e di quella di Open Fiber sono dunque sempre più “incrociati”. E le persone che siederanno nel Consiglio di Tim faranno inevitabilmente la differenza nelle decisioni prossime venture. Poi ci sarà da fare i conti con il nuovo governo. Ma si rischia di andare per le lunghe e dunque intanto ci si prepara.

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