Parisi: “Per l’Italia è strategica l’economia digitale”

Il presidente di Confindustria Digitale rilascia al Corriere delle Comunicazioni la prima intervista nel nuovo ruolo: “L’Ict può dare un contributo importante nel tenere sotto controllo la spesa pubblica e crescere”

Pubblicato il 03 Ott 2011

«Il vero tema è la crescita: una spinta determinante può venire
dall’economia digitale»: ne è convinto Stefano Parisi,
presidente di Confindustria Digitale, la nuova associazione che
raccoglie “una lunga filiera”: gestori di reti di tlc,
fornitori di tecnologie e di apparati, outsourcer, aziende
dell’IT. A ben vedere è quasi un miracolo, quello riuscito a
Parisi: superare i particolarismi di un mondo estremamente
competitivo e gli interessi a volte contrapposti per raccogliere in
un’unica federazione associazioni distinte: Assinform (aziende
dell’informatica), Anitec (i manifatturieri), Asstel (i gestori
dei servizi di tlc), Aiip (gli Internet service provider). “E
speriamo di accogliere presto anche Assocontact , (contact center
in outsourcing, n.d.r.)”, anticipa Parisi in questa che è la sua
prima intervista da presidente di Confindustria Digitale. “È la
realizzazione di un vecchio sogno”.
Che in concreto significa?
Significa dare voce unitaria ad un mondo che in Italia “vale”
120.000 imprese, 130 miliardi di fatturato, il 4,5% del Pil,
650.000 addetti, più di 10 miliardi di investimenti l’anno, una
massa salariale di 22 miliardi. La nostra associazione è diventata
fra le prime associazioni di Confindustria, al pari delle più
importanti federazioni storiche come Federmeccanica e Federchimica.
Se penso che sino a qualche anno fa l’economia digitale era
pressoché sconosciuta in Confindustria… Emma Marcegaglia ci ha
dato una grossa mano a fare capire l’importanza del nostro
settore e a raggiungere questo risultato.
Quale è stato l’agente coagulante?
La consapevolezza che non aveva più senso continuare a tirare la
coperta da una parte e dall’altra. Oltre i singoli interessi,
c’è un interesse comune: fare crescere l’economia digitale in
Italia. In questo modo tutti i segmenti della filiera potranno
crescere, non uno magari a spese dell’altro. Oggi l’economia
digitale italiana è ristretta in un perimetro asfittico: basso uso
di Internet da parte di famiglie e imprese, digitalizzazione
limitata della pubblica amministrazione, pochi investimenti in IT.
Nel contempo, il mercato è sempre più competitivo, i margini sono
in calo, le aziende sono costrette a fare investimenti importanti
solo per mantenere la qualità del servizio. È evidente che solo
la crescita può farci uscire dall’impasse.
Lo si dice anche dell’Italia.
C’è un consenso generalizzato, mi sembra, sulle cose da fare:
tenere sotto controllo la spesa pubblica e crescere. Ebbene,
l’Ict può dare un contributo importante a raggiungere questi due
obiettivi.
Ridurre la spesa aumentando gli investimenti pubblici in Ict?
Ormai è dimostrato, tanti sono gli esempi all’estero ma anche da
noi in Italia: informatizzazione della pubblica amministrazione
abbinata a sistemi di comunicazione adeguati consentono di ridurre
la spesa, di tenere sotto controllo i centri di costo, di dare
trasparenza alla macchina pubblica, di fare efficienza, di
migliorare i servizi per i cittadini. È un combinato disposto che
solo la tecnologia digitale può consentire. Non pensiamo all’Ict
come a un costo: non si tratta di spendere di più ma di usare
l’Ict per spendere di meno e dare servizi migliori.
Non mancano le resistenze.
Non vi è dubbio. Lo si è visto, per restare ad un esempio
recente, con i certificati medici online. Ma se si persevera nelle
iniziative, i risultati si vedono. Certo, c’è necessità di una
grande trasformazione dei processi, con iniziative dall’alto ma
che siano capaci di stimolare un movimento anche dal basso.
Niente dirigismi?
Non è un problema di dirigismi, ma del cambiamento di paradigma
introdotto dalle tecnologie digitali. Le informazioni non sono più
soltanto nei database delle amministrazioni. Sono nel territorio,
diffuse presso gli utenti. Non c’è più solo il tema di
connettere le banche dati della pubblica amministrazione: le
persone connesse alla Rete sono una fonte straordinaria di
informazioni che possono essere rese efficienti valorizzando in
modo nuovo il rapporto tra cittadino e amministrazione, fra
dipendente e amministrazione, fra impresa e amministrazione. È
un’opportunità straordinaria. Pensiamo, ad esempio, a come il
digitale può razionalizzare la spesa farmaceutica senza incidere
sulle prestazioni ai malati. Certo, le pubbliche amministrazioni
devono capire che i processi di digitalizzazione non vanno fatti
“a pezzi” ma con logiche end to end: è l’intero processo che
va digitalizzato. Solo così i flussi di lavoro e informazioni si
integrano realizzando efficienze e migliorando la capacità di dare
servizi ai cittadini.
Non sempre l’offerta si è dimostrata all’altezza.
Accetto la critica. Anche le imprese devono fare un grande salto di
qualità, capire che la scommessa per tutti è rendere efficiente
la pubblica amministrazione e ridurne i costi. L’evoluzione
dell’offerta deve accompagnare una importante evoluzione della
domanda e viceversa. Con le pubbliche amministrazioni dobbiamo
trovare una partnership. Già oggi è possibile mettere in campo
azioni che danno risparmi in tempi molto brevi. Sono soldi ben
spesi. Non chiediamo fondi in più: però quelli che ci sono
possono essere spesi meglio. Brunetta sta già facendo molto in
questa direzione: vogliamo diventare un suo partner.
Anche l’industria è poco “digitale”
È vero. Nelle imprese italiane l’adozione delle tecnologie Ict
è più bassa che altrove. Questo pesa su competitività,
efficienza, produttività delle imprese. Le filiere industriali
hanno molto da guadagnare dall’Ict. Cercheremo di parlare con
loro: non per vendere pacchetti di prodotti ma per metterci al loro
servizio, per capirne i problemi, per mettere a disposizione il
nostro know how e le nostre imprese. Tutto questo va in direzione
della crescita.
Tremonti annuncia il “tagliando”.
Una domanda da porsi è: “Quanto possiamo crescere nel
digitale?” La risposta è: “Moltissimo, visto che siamo
indietro rispetto ad altri”. È un problema ma anche
un’occasione: gli investimenti nel digitale sono un acceleratore
importante del Pil. L’Ict può dare molto al Paese.
Non è una scusa per chiedere soldi?
Non chiediamo soldi ma scelte giuste: vorremmo che l’Italia
considerasse l’economia digitale un fattore strategico di
sviluppo. E poi, guardi, le nostre imprese di soldi ne investono
parecchi. Si pensi, per stare alle telecomunicazioni, alle aste per
l’Lte e agli ingenti investimenti che saranno necessari per la
posa delle nuove reti mobili e per le Ngn. Questi sforzi avranno un
effetto immediato su Pil e occupazione, ma anche un effetto indotto
ancora più importante perché consentiranno la crescita di
un’economia digitale fatta di contenuti, servizi, nuove
applicazioni che correranno sulla Rete e supporteranno nuove
iniziative economiche che faranno da traino al Pil del futuro.
I fondi pubblici per le nuove reti sembrano spariti.
Inutile farsi illusioni: la situazione del bilancio pubblico la
conosciamo tutti. Dobbiamo imparare a fare i conti senza quei
fondi. Aspettarli è una perdita di tempo. Piuttosto, dobbiamo
chiedere regole che garantiscano il ritorno degli investimenti.
Tutte le aziende del settore sono pronte a compartecipare
all’investimento per le nuove reti se ci sono le condizioni per
rendere credibili i loro business plan.

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