In Italia serve un cambio di passo culturale che contribuisca a
fare crescere e radicare la percezione che dall’Ict passa il
rilancio del sistema Paese. Un cambio di passo, da attuare ancor
prima di pensare a nuovi investimenti nel settore, che possa
invertire il pericoloso trend del Pil italiano: strategia possibile
con “l’elaborazione di un’agenda che metta l’Ict al primo
posto”. Ne è convinto Cristiano Radaelli, presidente di Anitec,
l’associazione nazionale industrie Informatica, Telecomunicazioni
ed Elettronica di Consumo aderente a Confindustria Anie.
Ingegner Radaelli, prima la cultura e poi i piani economici
per rilanciare la competitività?
In un momento di forte difficoltà come quello che stiamo
attraversando è importante cavalcare quel grande cambiamento che,
in parole più precise, può essere definito digital agenda. Ovvero
mettere l’innovazione in testa a ogni programma di sviluppo. In
Italia, contrariamente a ciò che accade negli Stati Uniti, in
Giappone, ma anche in alcuni Paesi europei, l’Ict non è ancora
percepito come un dei più importanti elementi in grado di generare
la crescita e lo sviluppo dell’economia.
In questo senso quali sono le strategie che Anitec-Anie
pensa di mettere in campo per agevolare il cambiamento e, quindi,
stimolare gli investimenti?
L’associazione ha elaborato delle proposte concrete che vanno
dalla trasformazione del credito di imposta in un meccanismo
strutturale, alla previsione di misure specifiche per il settore
delle tecnologie digitali, evitando l’inutile sperpero senza
accontentarsi di investimenti a pioggia, fino all’elaborazione di
strategie di collaborazione tra industria e università. Un
rapporto, quest’ultimo, che sconta ancora un pesante fardello dal
punto di vista della burocrazia e che rende inefficaci strumenti di
per sé virtuosi già esistenti, come ad esempio gli spin off
universitari. “Liberando” questa relazione, l’Italia
diventerebbe più competitiva anche sul mercato del lavoro che –
secondo le stime del commissario Ue all’Agenda Digitale, Neelie
Kroes – da qui a 20 anni chiederà sempre più competenze digitali.
Si tratta di interventi in cui il ruolo del settore pubblico è
determinante: perché prima degli investimenti servono regole
chiare entro cui questi si possono realizzare.
Ciò vale anche per le reti di nuova
generazione?
Soprattutto per le Ngn. Chiarito che ormai non c’è la
possibilità di un intervento pubblico in quel settore, le
istituzioni si dovrebbero impegnare soprattutto a disegnare un
quadro regolatorio che sia in grado di garantire i ritorni degli
investimenti privati e, allo stesso tempo, realizzare servizi
innovativi che viaggino su quelle reti. Mi riferisco, in particolar
modo, allo sviluppo e all’implementazione di servizi digitali
nella Pubblica amministrazione nella Sanità, nella Scuola nonché
per la riorganizzazione del back office nel senso di una
progressiva dematerializzazione dei processi.
A proposito del ruolo pubblico il presidente di
Confindustria, Emma Marcegaglia, ha bacchettato il governo
accusandolo di immobilismo. Lei che idea si è fatto?
Credo che sia stato importante sottolineare l’esigenza di
interventi strutturali e di lungo termine per invertire un
pericoloso trend, in atto almeno dai primi anni Novanta, che vede
il Pil italiano crescere molto meno che in altri Paesi. Un trend
che si inverte, appunto, con l’elaborazione di un’agenda che
metta l’Ict al primo posto: una sorta di “Italia 2020” sul
solco di Eu2020 lanciato dall’Unione europea.
Ha fatto spesso riferimento alla competitività e alla
produttività dell’Italia. Il dibattito tiene banco proprio in
questo periodo, soprattutto riguardo ai modelli contrattuali. Lei
crede che sia necessario un “modello Marchionne” anche per
rilanciare le imprese Ict?
Il cosiddetto “modello Marchionne” è stato scelto per la Fiat,
non credo che sia replicabile automaticamente in altre aziende o in
altri settori. Detto questo, è importante dare impulso propositivo
alla questione delle relazioni sindacali, discutendo con le
istituzioni e le parti sociali. D’altronde quel tipo di relazioni
è stato pensato e messo in atto in un secolo in cui il sistema
economico aveva altre caratteristiche rispetto a quello attuale e,
soprattutto, in un momento in cui non era necessario gestire la
flessibilità del lavoro che, invece, oggi è questione dirimente.