EQUO COMPENSO

Tassa sugli smartphone, una scelta sbagliata

Il blitz di Franceschini (a metà incontro Italia-Costa Rica) apre una finestra sulla mancanza di visione sulla gestione dei contenuti del futuro. E si configura come un balzello che colpisce i consumatori più deboli: arricchendo la Siae

Pubblicato il 23 Giu 2014

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Se ne discuteva da mesi, ma la conclusione ha tutto il sapore di un blitz. La tempistica per la firma del ministro ai Beni Culturali, Dario Franceschini, sotto il decreto sulla copia privata (porta da novanta centesimi a quattro euro il prelievo fiscale su smartphone e tablet) sembra stata scelta apposta per scansare le polemiche, nascondendo il provvedimento venerdì scorso a poco più di un’ora dal fischio d’avvio della partita Italia-Costa Rica. Forse perché consapevole che quei contenuti assomigliano molto al risultato fatto degli azzurri, il ct del Mibact ha preferito sottrarsi in anticipo alla luce dei riflettori. Piccola furbizia e ancora più piccola figura.

La contrarietà delle associazioni imprenditoriali di categoria, Confindustria Digitale e Asstel in primis, si è manifestata pubblicamente subito, addirittura prima delle reazioni delle associazioni consumatori. E questo la dice lunga su quanto apprezzato dalle imprese sia il provvedimento di Franceschini.

Che non a caso è motivato da un’unica ragione sostanziale: portare soldi nel carrozzone di una Siae che stenta a trovare un modello organizzativo diverso dalle “glorie” del passato. Ma soprattutto non riesce a dare futuro ad una storia tutta italiana, ormai poco adatta in un mondo di consumo digitale dei prodotti dell’ingegno. E allora sopravvive con i balzelli che il politico di turno gli elargisce. Come ora Franceschini con un decreto che serve solo a Siae per tirare a campare.

Si è obiettato che la norma non considera che la musica oggi si sente soprattutto in streaming e che di copie private su smartphone e tablet se ne fanno ben poche da giustificare un incremento del balzello di oltre il 400%. Siamo assolutamente d’accordo.

Tassare ricchezza accumulata, rendite e consumi può essere una strategia condivisibile in un Paese di evasione ed erosione fiscale, dove buona parte del prelievo è stata posta a carico del lavoro dipendente e dei pensionati. Ma la soluzione non sono i balzelli a raffica.

Si potrebbe obiettare che quattro euro in più per uno smartphone non sono granché e non penalizzeranno le vendite. Immaginate se il governo applicasse lo stesso schema a tutti i prodotti!

Eppure, anche quattro euro sono qualcosa. Ad esempio, possono rappresentare una percentuale sensibile del prezzo di uno smartphone di fascia bassa. Risultato: proporzionalmente contribuisce di più chi non può permettersi l’haut de gamme. È giusto?

Si auspica un po’ tutti che la marcata propensione all’uso dei cellulari possa aiutare l’Italia a superare i propri gap di alfabetizzazione e di pratica digitale, proprio perché Internet sarà sempre più in mobilità. Ma dovranno diffondersi tablet e smartphone a basso prezzo perché la penetrazione dei telefonini intelligenti sia effettivamente di massa: i più poveri oggi sono anche quelli che meno usano Internet. Il mercato sta andando in questa direzione: avere sempre più a meno. Perseguire una politica fiscale che penalizza questa evoluzione virtuosa non è lungimirante.

La frittata è fatta. Suggeriamo una cosa: che almeno una parte dei ricavi della tassa (o “compenso” come preferisce chiamarla Franceschini) sia destinata ad iniziative volte a favorire conoscenza e uso di Internet, in particolare in mobilità. Magari, oltre che la Siae ne potrebbero guadagnare gli autori. Di sicuro ne guadagnerebbe il Paese.

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