Telecom, Carnevale Maffè: “No a nocciolini duri, ma forte management e fuori la politica”

Il docente della Sda Bocconi: “Una buona governance deve essere efficace, non esteticamente perfetta. Servono consiglieri indipendenti ma anche competenti e responsabili”. Il modello di riferimento? “Quello di BT”

Pubblicato il 14 Feb 2014

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In vista del cda di Telecom Italia del 27 febbraio e dell’assemblea di aprile pubblichiamo una serie di opinioni sul tema della governance della società in questo momento al centro del dibattito fra azionisti, organi sociali, stakeholders.

È inutile conversare di ciò che non si è o, in questo momento, non si può essere. Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategie e imprenditorialità alla Sda Bocconi, influencer sui social media e consigliere indipendente in diverse società, invita a guardare il reale: “Telecom oggi ha azionisti con ruoli disomogenei. Lo stesso Fossati non è certo come Carl Icahn negli Stati Uniti. Non è un corporate raider, che scommette sugli azionisti di minoranza. Lui punta a quote di controllo e di influenza. E anche sotto Telco non c’è un layer di fondi di investimento che votano con i piedi, ma un sottobosco di investitori che stanno contendendo il ruolo di controllo a Telco. Altro che public company!”.

Professore, perché non le piacciono i discorsi generali?

Perché Telecom è un’azienda centrale per il Sistema Paese. E quindi ha bisogno di una governance particolare. A me non piace usare il termine strategica. Preferisco dire che presidia un’infrastruttura non replicabile. E quindi è centrale come Terna o Eni.

Quindi non basta il modello della public company?

No, perché Procter&Gamble è una public company ma non ha la valenza istituzionale di Telecom. Senza tenere conto che si tratta anche di un’azienda con un potere soggetto a un’autorità di garanzia. La governance non può fare a meno di considerare che ogni azione di Telecom ha un impatto regolatorio. Non è solo un’azienda quotata in Borsa, come tante altre. Telecom è anche un’azienda multinazionale.

Non come Vodafone, però.

Certo, Vodafone è una public company veramente public perché è internazionale con un portafoglio di asset distribuiti nel mondo. In nessun Paese è decisiva, è riuscita a non essere monopolista da nessuna parte e si può quindi permettere di avere una governance con minori vincoli rispetto a un ex monopolista come sono le classiche telecom europee.

Quale modello di governance dell’ex monopoliste le piace?

Quello Bt che ha portato a una separazione precisa tra il perimetro di asset non replicabili e alcuni segmenti della rete. Bt è la società che assomiglia di più a Telecom. Al momento della privatizzazione il “comitato del Britannia” (il riferimento è all’incontro fra investitori e potenti dell’economia mondiale che nel 1992 si tenne a bordo del panfilo della Regina Elisabetta, ndr.) ritenne di fare la public company con il nocciolino duro. Ma in una public company non ci possono essere nocciolini duri! Deve esserci un forte management senza influenza politica.

Quindi lei ritiene che ci sia ancora un’ipoteca politica?

Certo. Il primo ostacolo viene dalla politica. Che cosa ci dice la storia di Vodafone? Sceglie i manager per il merito e perdona persino qualche cedimento, come successe quando Vittorio Colao tento l’infelice esperienza in Rcs. Uscì da Vodafone, ma siccome è un bravo manager, gli permisero di tornare indietro.

Torniamo al board Telecom. Che cosa c’è che non va?

Avere una situazione ibrida. Il controllo è in mano a Telco e ci mancherebbe altro! Gli azionisti di riferimento hanno pagato un premium price. Non gli si può chiedere adesso di diventare public company. Sarebbe come chiedere a qualcuno di infliggersi un danno da solo. Con l’attuale assetto azionario, quindi, Telecom non può essere una public company, che non deve avere un singolo azionista con maggioranza di riferimento e dovrebbe avere un cda espressione della volontà degli azionisti, contendibile e che si riforma a ogni assemblea.

Ma non può cambiare questa situazione?

Telefonica dovrebbe vendere le sue azioni sul mercato, accettando una perdita significativa. Con tutto il rispetto per i commentatori sbadati, io dico: follow the money. Quindi è poco probabile che accada e non ha senso parlare di public company.

I consiglieri indipendenti, che Fossati chiede più numerosi e competenti, possono rappresentare un parziale correttivo al predominio di un azionista?

Telecom Italia viene da una cultura di governance operativa fatta da consiglieri indipendenti scelti su liste di nomi di prestigio piuttosto che di veri esperti del settore, quindi faticano a entrare nel merito delle scelte industriali. Non sono in grado di fare i garanti veri, perché se lo fossero stati avrebbero dovuto fischiare prima. Quindi è vero, servono indipendenti ma anche competenti. Il requisito di primo grado è che tu sia amministratore dell’azienda, non è che perché sei indipendente puoi permetterti di non amministrare! Evitiamo comunque anche in questo caso voli pindarici.

Che cosa vuol dire?

Così come non serve far finta di poter e voler fare la public company, è inutile mettersi a cercare indipendenti che siano anime belle. Serve solo gente responsabile e la responsabilità di solito si coniuga con la competenza. Telecom ha molti consiglieri sostanzialmente non dotati dalle competenze per valutare la complessità del business, perché sono di nomina bancaria, politica o lobbistica. Il manager quando va in consiglio non ha challenge, nessuno entra nel merito. E invece serve un consiglio che produca decisioni utili per il bene dell’azienda. Una buona governance deve essere efficace, non esteticamente perfetta.

GLI ALTRI CONTRIBUTI AL DIBATTITO

Giulio Sapelli

Francesco Maria Aleandri

Alberto Toffoletto

Ferdinando Pennarola

Luca Arnaboldi

Maurizio Dallocchio

Umberto Bertelè

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