Direbbero i giuristi: “Recita l’articolo 43, comma 11, del testo unico radiotelevisivo (decreto legislativo n. 117/2005) che le imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo”.
Tradotto in linguaggio per non addetti ai lavori: Telecom Italia, che nelle telecomunicazioni supera il 40% complessivo dei ricavi, non può mettersi insieme a Mediaset, che supera nel sistema integrato delle comunicazioni (il famigerato SIC) il 10% dei ricavi.
Ma allora se esiste questo divieto perché si parla tanto di matrimonio possibile tra i due colossi nostrani? Chiacchiere in libertà o qualcosa di più concreto, seppure in barba alla legge?
Il dubbio per la verità viene quando si sentono sul punto interventi anche di autorevoli esponenti delle due società. Telecom Italia è da qualche tempo oggetto del desiderio del gruppo del biscione. La ciccia ormai è nel business di internet e delle reti, mentre la televisione generalista stenta sempre più nei ricavi. Ma la storia offre sempre strani paradossi. Ed ecco che una norma scritta a suo tempo per proteggere il giardino dorato della televisione dalle invasioni dell’ex monopolista telefonico, impedisce oggi proprio a Mediaset di entrare nell’agognato mondo delle comunicazioni elettroniche.
Dall’altra parte, Telecom Italia non se la passa proprio bene e i suoi azionisti di controllo, in particolare Telefonica, non vedono l’ora di lasciare. Alla ricerca del socio possibile, spunta inesorabilmente Mediaset.
Ma come detto la legge lo vieta. Certo può essere cambiata (chissà, l’ipotesi è forse prevista in un codicillo del patto del Nazareno) o può essere aggirata (con l’affidamento della pratica matrimoniale a Vincent Bolloré, il patron di Vivendi, tradizionalmente ben visto ad Arcore). Resta il problema della diversa capitalizzazione delle due società, troppo sproporzionata in favore di Telecom Italia, e resta soprattutto il problema che ben difficilmente Telefonica si sbarazzerà delle sue azioni ad un prezzo vile. È in gioco anche la responsabilità dei suoi amministratori che solo alcuni mesi fa hanno scalato posizioni di controllo non proprio “a gratis”.
Mentre le stelle stanno a guardare l’ennesimo complicarsi della vicenda Telecom Italia, il Governo ha comunque pensato bene, con il decreto competitività, di permettere ai signori dei salotti di continuare a comandare in importanti aziende quotate, compresa la stessa Telecom Italia, senza impegnare il becco di un quattrino. Con una norma del decreto, previa modifica dello statuto, le azioni detenute in modo continuativo per almeno 24 mesi avranno ora voto doppio.
Una manna per i vari azionisti di riferimento. Basterà stare fermi per due anni e si rafforzerà il loro controllo. E così, tra leggi dimenticate, conflitti di interesse e capitalismo senza soldi, si consumerà nei prossimi mesi il destino di Telecom Italia, allo stato nell’apparente disinteresse generale.