La crisi di competitività della nostra economia necessita di manovre finanziarie, di soluzioni amministrative e legislative che, però, lasciamo dibattere agli esperti in materia. Due importanti fattori non possono, però, essere trascurati per l’impulso che possono dare al miglioramento: le tecnologie informatiche e l’approccio culturale. Le prime sono difficili da diffondere, se non si riesce a percepirne la capacità di creare valore.
Il secondo non è facilmente modificabile, perché frutto dei sedimenti delle abitudini, figlie di convinzioni e di schemi ritenuti eterni e intoccabili. Le tecnologie e i cambiamenti sociali hanno reso obsoleti alcuni modelli organizzativi del lavoro. Avere la sensibilità di tenerne conto significa poter “cavalcare la tigre”. Non farlo provoca un progressivo allontanamento da una situazione di equilibrio e di crescita. La flessibilità degli spazi, degli orari di lavoro e l’uso delle tecnologie Ict concorrono a disegnare il profilo di un’impresa, che riesce a far coesistere le esigenze di business con quelle degli individui.
Smart Working non è lo slogan per imprenditori o manager dalle idee “originali”, ma è un approccio innovativo al lavoro. “Le ricerche da noi condotte sugli HR Manager di un campione di aziende – spiega Mariano Corso, ordinario al Politecnico di Milano e responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working – hanno mostrato i benefici della flessibilità lavorativa in termini di spazi e orari, grazie anche alle tecnologie informatiche. L’84% degli intervistati riconosce un miglioramento nella motivazione del personale. Ma non è finita qui. Anche il tasso di assenteismo viene ritenuto in diminuzione dal 55% dei rispondenti, mentre il 48% ritiene possibile un incremento della produttività individuale”. Il cambiamento avviene secondo la migliore delle logiche, quella “win-win”, perché entrambi i soggetti (imprese e lavoratori) ottengono qualcosa di soddisfacente. Il telelavoro, la nuova frontiera dell’occupazione, aggiunge una freccia da scoccare nell’agone competitivo.
Non solo. Anche l’ambito sociale del Paese potrebbe trarne giovamento. Quante persone, in condizioni di disagio, potrebbero svolgere un’occupazione senza spostarsi da casa? Cosa si chiede? Innanzitutto, che le norme non siano il solito coacervo di prescrizioni che immobilizzano l’agire. In fondo lavorare da casa è anche un atto di responsabilità individuale. La flessibilità che si chiede ai giovani di fronte al posto di lavoro – meno durevole nel tempo – deve però trovare riscontro in impianti legislativi snelli e realistici. Inutile avere un’idea innovativa e poi franare con leggi cavillose, che scoraggiano anche i meglio intenzionati. “Innovare i modelli di lavoro con lo Smart Working è significativo sia sotto il profilo culturale che della produttività – prosegue Mariano Corso – I benefici sono così rilevanti, che non si può fare a meno di promuoverne la diffusione”. In Italia il telelavoro, nonostante la sottoscrizione nel 2002 del relativo protocollo europeo, è fermo al 3,9% mentre Francia, Germania e Regno Unito oscillano tra il 7% e il 9,6%, con l’eccellenza del 15% in Danimarca. Perché trascurare che le ricerche stimano una crescita della produttività media di questi lavoratori di almeno il 25%? Un 10% in più di telelavoro tra i “white collar” delle aziende con più di 500 dipendenti potrebbe far risparmiare sul costo del lavoro circa 1,7 miliardi di euro.
Perché non riflettere sul fatto che l’aumento dei telelavoratori potrebbe innescare un processo di riorganizzazione degli spazi, aiutando a contenere i costi degli immobili che ospitano i lavoratori? E se tutto questo coinvolgesse anche la PA? Flessibilità degli spazi, presenza fisica negli uffici meno rigidamente definita, telelavoro più diffuso si traducono in spostamenti ridotti e uso più intelligente deitrasporti. Ma anche meno inquinamento. In Italia 9 milioni di occupati usano mezzi di trasporto per recarsi al lavoro: più del 75% usa l’auto. Potremmo avere oltre 307 mila tonnellate in meno di CO2, se solo il 10% dei lavoratori lavorasse da casa per almeno 100 giorni all’anno. Non vale la pena pensare di alfabetizzare imprenditori e manager per l’adozione di nuovi modelli lavorativi o a leggi in grado di stimolarne l’utilizzo? Perché non usare queste leve per la crescita e la competitività? Una possibilità in più, non fa male a nessuno.