Il Tar del Lazio ha stabilito che le aziende telefoniche possono indicizzare le tariffe all’inflazione solo con esplicito consenso scritto dell’utente, salvo che ciò non sia già previsto nel contratto. Il tribunale ha così sentenziato (SCARICA QUI IL DOCUMENTO COMPLETO) dopo un ricorso presentato da Tim contro Agcom, respingendo l’argomentazione dell’operatore secondo cui tali modifiche sarebbero “accessorie” e non richiederebbero consenso, affermando, invece, che l’indicizzazione all’inflazione altera significativamente i termini contrattuali.
Tuttavia, su altri due aspetti, il Tar del Lazio si è schierato a favore di Tim e contro Agcom. I giudici, infatti, hanno stabilito che gli utenti non possono recedere dal contratto se hanno firmato e accettato una specifica clausola.
Indicizzazione dei prezzi tlc: serve il consenso del consumatore
Nel ricorso presentato, Tim ha impugnato alcune previsioni dell’articolo 8-quater della delibera n. 307/23/Cons dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni rubricata “Regolamento recante disposizioni a tutela degli utenti finali in materia di contratti relativi alla fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche”, che stabiliscono regole e limiti che incontrano i fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche nell’introdurre o nell’applicare clausole di indicizzazione del corrispettivo nei contratti con gli utenti, nonché obblighi informativi da fornire nei confronti di questi ultimi nel caso in cui vengano proposte o pubblicizzate le predette clausole.
Nel primo motivo di ricorso, in particolare, Tim si opponeva a quanto stabilito da Agcom, ovvero che “La proposta di modifica, da parte dell’operatore, delle condizioni contrattuali al fine di prevedere un adeguamento periodico all’indice dei prezzi al consumo, in caso di contratti che non prevedono già tale meccanismo, può essere attuata solo dopo esplicita accettazione, in forma scritta, da parte dell’utente finale. In caso di mancata accettazione esplicita della modifica contrattuale da parte dell’utente restano in vigore le condizioni contrattuali già previste”.
A detta dell’operatore nazionale, Agcom, assoggettando alla regola del consenso espresso (opt-in) l’introduzione di clausole di indicizzazione del corrispettivo avrebbe violato l’art. 98-septiesdecies del Codice delle comunicazioni elettroniche, comprimendo indebitamente il suo ambito applicativo.
“La tesi si basa sull’assunto che l’introduzione di una clausola con meccanismi di indicizzazione rappresenti soltanto una modifica accessoria dell’obbligazione, con conseguente applicabilità del meccanismo dell’opt-out (tipico dello ius variandi), previsto dalla citata previsione del codice delle comunicazioni elettroniche, e non invece un’ipotesi di novazione, implicante l’acquisizione del consenso”, si legge nella sentenza. Il Tar ha, tuttavia, respinto questo tesi.
La sentenza del Tar del Lazio
Infatti, secondo il Tar del Lazio, “Deve affermarsi la legittimità della previsione impugnata in quanto Agcom (…) si è limitata a specificare che l’introduzione di meccanismi di indicizzazione, non previsti al momento dell’adesione dell’offerta commerciale, non riguarda la variazione di condizioni già contemplate nel contratto e, dunque, abbisogna del consenso espresso dell’utente. Sul punto non può condividersi la tesi di parte ricorrente secondo cui il meccanismo di indicizzazione, limitandosi ad aggiornare i corrispettivi all’inflazione, non andrebbe ad incidere su elementi qualificanti del rapporto”.
Il Tar del Lazio concorda con quanto affermato nella delibera Agcom, secondo cui qualsiasi “modifica di un contratto che va a introdurre, per la prima volta, un meccanismo di indicizzazione, non può essere considerata come una mera modifica tariffaria ma altera la natura stessa del contratto coinvolgendo altri aspetti quali, ad esempio, l’assenza di certezza sull’entità del canone nel corso del rapporto contrattuale. Si passa da un contratto determinato in tutte le sue componenti a un contratto in cui una delle componenti essenziali, il canone, potrà variare nel tempo in modo non prevedibile”.
I limiti dell’opt-out da un contratto tlc
Tuttavia, il Tar ha dato ragione a Tim su altri aspetti. Il tribunale ha spiegato che una clausola contrattuale può legittimamente includere adeguamenti tariffari superiori ai parametri dell’Ipca (Indice armonizzato dei prezzi al consumo).
Inoltre, se l’adeguamento supera il 5% della tariffa, l’utente non ha diritto a richiedere il passaggio a un’altra offerta, un diritto precedentemente riconosciuto da Agcom.
Il Collegio ha, infatti, condiviso “la tesi di parte ricorrente secondo cui subordinare, di volta in volta, ad una rinnovata manifestazione del consenso la produzione degli effetti di una regola accettata a monte non abbia fondamento giuridico o comunque lo stesso non si evinca dalla motivazione della delibera” di Agcom.
Gli adeguamenti tariffari di Tim
“La sentenza limita in parte la capacità di Tim di applicare adeguamenti tariffari basati sull’inflazione senza il consenso esplicito dei clienti, imponendo procedure più strutturate per comunicazione e raccolta di consensi”, è il commento di Intermonte. “Tuttavia, il supporto parziale del Tar su clausole pre-firmate e adeguamenti tariffari di maggiore entità dovrebbe attenuare alcune di queste restrizioni, garantendo maggiore flessibilità in specifici contesti contrattuali”.
Proseguono gli analisti : “Nel 2024, gli adeguamenti tariffari di Tim dovrebbero generare circa 91 milioni di euro di ricavi incrementali (pari all’1% dei ricavi da servizi domestici con un upside del 4.5% sull’EbitdaaL domestico, secondo le nostre stime). La campagna di repricing sul segmento consumer ha interessato 5,6 milioni di linee fisse e 4 milioni di linee mobili nel primo semestre, senza impatti significativi sul churn. La società prevede di replicare questa strategia nel 2025, salvo cambiamenti significativi nel contesto competitivo”.