Che Amos Genish avesse i mesi contati si era intuito già da tempo. Ma che il tutto si consumasse in poche ore –all’indomani di un cda in cui era stata riconfermata la fiducia all’Ad – ha sorpreso persino i ben informati. Ancora una volta Tim si trova a mettere il punto e accapo. Il tutto in un clima di scontro interno e con tutta una serie di nodi da sciogliere determinanti per il futuro dell’azienda.
Lo scorporo della rete sembrava cosa fatta, ma il tempo passa e le nuove regole europee rischiano di sparigliare nuovamente le carte nonostante gli annunci del ministro Luigi Di Maio. E l’azienda potrebbe essere destinata ad uno spezzatino dall’esito ben più pesante rispetto alla tanto criticata privatizzazione del 1997. Non solo: il destino di Tim impatterà inevitabilmente anche su quello di Open Fiber e, a catena, di tutte le altre telco, non a caso guardinghe nei confronti delle decisioni dell’azienda e soprattutto del governo.
La “statalizzazione” della rete, ossia la creazione di una newco dal peso pubblico rilevante, con Cassa depositi e prestiti a fare la parte del leone, preoccupa e non poco gli operatori. Aleggia lo “spettro” di un nuovo monopolio, sostenuto da meccanismi di accesso alla rete (il cosiddetto metodo Rab) che seppur nella forma mirano a garantire condizioni di accesso eque per tutti, nella sostanza impatteranno sui conti delle telco, andando a ricreare il “vecchio” disequilibrio Olo-incumbent. La rinnovata competizione infrastrutturale – con tanto di rilancio degli investimenti – che si era generata con la discesa in campo di Open Fiber, rischia dunque di vedere annullati gli sforzi fatti e paradossalmente persino di rallentare l’andamento dei cantieri nelle aree bianche, visto che quando lo Stato ci mette lo zampino il mercato perde inevitabilmente la sua forza propulsiva. O, almeno, questo racconta la storia.
Per non parlare poi del fronte mobile. Le buone intenzioni della Commissione europea – che ha aperto la strada a Iliad in nome della tutela della concorrenza e del mercato a seguito della fusione fra Wind e 3 – alla prova sul campo si sono trasformate in un boomerang senza precedenti sul fronte della concorrenza, del fair play, del mercato e persino della qualità dei servizi ai clienti finali. In appena un trimestre – era fine maggio quando il quarto operatore debuttava in Italia – si è compiuto un vero e proprio disastro: fatturati in diminuzione, margini sempre più risicati, casse sempre più vuote. E l’outlook per fine anno, per non parlare di quello sul 2019, di certo non è al rialzo.
L’unica a guadagnarci, finora, è stata solo Iliad. Ma anche il new entrant dovrà inevitabilmente fare i conti con il lungo termine e sarà costretta a investire pesantemente per raggiungere gli obiettivi di marketshare e per ritagliarsi un ruolo vero e credibile fra gli “infrastrutturati”.
L’azienda si sta già guardando intorno e la strada delle acquisizioni sembra essere la più accreditata. La “preda”? Se si aprissero i botteghini in pole position finirebbe Fastweb: l’azienda, con l’ “operazione” Tiscali, allo stato attuale è quella con la dote (asset di rete fissa e frequenze) più interessante. Anche Vodafone potrebbe tornare a farci un pensiero, dopo l’offerta, finita in niente, di qualche anno fa. Ma è più improbabile. Linkem, con il suo tesoretto di frequenze – il cui valore è balzato notevolmente (a seguito dell’esito della gara 5G) – e l’asse con Go Internet è l’altro operatore che ha aumentato di grosso il proprio peso specifico. E altri piccoli operatori potrebbero diventare protagonisti nelle manovre di “consolidamento”.
Una cosa è certa: il mercato italiano è destinato a cambiare volto, nel bene e nel male. L’auspicio è che non si perda di vista la sfida del 5G e che la roadmap proceda lesta. È l’unica carta giocabile in questo caotico contesto. E la strada del network sharing – hanno appena aperto le danze Tim e Vodafone – potrebbe rivelarsi la via di uscita da tunnel.