La legge sulle intercettazioni radicalizza favorevoli (siamo a
sputtanopoli, lamentano) e contrari (è una legge bavaglio,
controbattono) e ci fa scoprire perché dopo tutto siamo indotti a
essere onesti, persino nostro malgrado. Forma e merito suggeriscono
di star fuori dagli schieramenti. La prudenza è suggerita dal
rischio di irreggimentarsi coi firmaioli abituali, noti dagli anni
’70 ai giorni nostri, per le campagne a favore di terroristi.
Altrettanta cautela occorre verso i cavalieri del santo sepolcro
imbiancato della privacy, perché con le cronache da boudoir
affiorarono stili amministrativi discutibili quando non
gangsteristici. Prese le opportune distanze, va detto che quella
legge sarà inefficace proprio allo scopo di tutelare la privacy,
prima ancora d’esagerare nella furia contro giornalisti ed
editori, tutt’al più vettori della notizia, non certo origine.
D’altro canto il problema non è l’intercettazione in sé,
quanto piuttosto la sua tracciabilità lungo tutto il percorso:
decisione, realizzazione, custodia dei reperti.
Suggerimmo che un’autorità garante vegliasse sugli spioni come
sugli intercettati. Si è preferita la via della repressione,
dimenticando che il problema più serio sono le intercettazioni
illegali. Questa legge impedirà che si possano accreditare
intercettazioni carpite da soggetti non istituzionali, ma nulla
potrà scongiurare di sciorinare i panni sporchi sulla piazza del
web, appoggiandosi a un server fuori controllo. Riaffiorerà in
questo modo una scoperta rivoluzionaria: la maniera più semplice
per vivere bene è una condotta integerrima, persino in caso di
intercettazioni e soprattutto quando si esige di fare politica.