FINANZA & INNOVAZIONE

Umberto Bertelè: “La bolla Internet? Non è più come nel 2000”

Il docente del Politecnico di Milano: “Società come Uber e Xiaomi hanno raggiunto valutazioni talmente elevate da apparire come autentiche scommesse, ma potrebbero ridimensionarsi in futuro. Però, a differenza di 15 anni fa, sono molte le imprese che presentano bilanci in forte crescita nei ricavi
e nei profitti”

Pubblicato il 19 Gen 2015

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“Il pericolo di una nuova bolla Internet c’è, ma lo scenario è oggettivamente diverso dal 2000. Ci sono società non ancora quotate come Uber o Xiaomi, che di recente hanno raggiunto valutazioni così elevate da apparire come vere e proprie scommesse sulle potenzialità di successo e che potrebbero anche fortemente ridimensionarsi in futuro. Ma, a differenza del 2000, sono molte le imprese a elevato valore – a partire dalle stesse Uber e Xiaomi – che stanno presentando bilanci in forte crescita nei ricavi e nei profitti. E comunque, sulle prospettive future, incideranno le grandi incognite che attualmente pesano sulla finanza mondiale”. A dirlo è Umberto Bertelè, ordinario di Strategia e Sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano e presidente onorario del Mip. “È naturale che, più i valori diventano alti, più cresce la possibilità che si verifichi una bolla, ma la sensazione è che non ci siano imprese ‘finte’: solo imprese che avranno più futuro e altre che ne avranno meno”.
Ma Uber vale veramente i 41,2 miliardi dell’ultimo aumento di capitale?
La startup nata a San Francisco, fornitrice di servizi via app di noleggio auto con conducente di varia natura (tra cui l’ormai celebre UberPop bandito come illegale in diverse città nel mondo), ha preferito, seguendo la strada seguita felicemente da Facebook nel 2011 e da Alibaba pochi mesi fa, ritardare la quotazione in Borsa e ricorrere ai fondi di venture capital e agli investitori privati per ottenere i capitali necessari per la sua crescita. Lo ha fatto con grande successo, forte dell’enorme popolarità guadagnata, raccogliendo sinora ben 2,6 miliardi di dollari. Lo ha fatto facendo pagare sempre di più le sue azioni e moltiplicando così per più di dieci volte la sua capitalizzazione “implicita” (quella calcolata sulla base del prezzo delle ultime azioni vendute), passata dai 3,5 miliardi dell’agosto 2013 ai 41,2 di inizio dicembre.
Un record per una startup non ancora quotata.
Il valore ha come presupposto che Uber, passata in meno di 4 anni dalla sola San Francisco a 229 città servite nel mondo, possa conseguire la leadership mondiale in questo nuovo comparto che essa stessa ha fatto nascere. E che possa uscire senza troppe ammaccature dai contenziosi che la vedono protagonista nel mondo. Anche se i dubbi sulla correttezza della presunzione possono essere numerosi.
Per esempio?
Uber ha a che fare con un mercato globale o multilocale, con diverse regole e diverse capacità di aggregazione sindacale dei tassisti suoi acerrimi nemici. Ci si chiede inoltre se l’espansione in nuove città non si scontrerà con la presenza di incumbent (molto forte ad esempio in Cina e in altre città asiatiche) che hanno preceduto Uber copiandone il modello. E c’è da domandarsi se l’impressionante velocità di espansione, che tanto fascino esercita nell’attrarre i finanziatori, non comporti rischi dal punto di vista della qualità e della sicurezza dei servizi, come accaduto in India dove Uber è stata bandita dopo che un autista di UberPop aveva abusato sessualmente di una turista.
È cresciuta velocemente anche la cinese Xiaomi, diventata in 4 anni terzo produttore mondiale di smartphone. Analogie con Uber?
Sono molte: nella velocità di crescita, nella scelta di non quotarsi subito, nell’enorme incremento di valore che l’ha portata di recente al picco di 46 miliardi di dollari (a un passo dai 50 raggiunti da Facebook prima di quotarsi raddoppiando a quota 100). Ci sono però anche differenze significative: Uber è un campione della cosiddetta “sharing economy” ed è entrata sul mercato con un modello di business disruptive degli equilibri esistenti. Xiaomi si muove in un comparto molto più consolidato, quello degli smartphone, dove in soli 4 anni ha strappato al leader mondiale Samsung la leadership del mercato cinese, riuscendo in un’operazione in cui si erano cimentate con minor successo anche grandi imprese cinesi provenienti da altri comparti (rispettivamente dagli apparati per telecomunicazioni e dai pc) come Huawei e Lenovo. La velocità di crescita dei ricavi e dei profitti (attualmente pari a 56 milioni di dollari) ha sicuramente contribuito a rassicurare gli investitori, ma anche in questo caso la correttezza della valutazione è legata alle prospettive future: prospettive su cui pesa l’ombra dell’infedeltà dei consumatori, che sta colpendo Samsung dopo aver colpito in passato Nokia e Blackberry e che per il momento sembra risparmiare solo Apple per il suo posizionamento nella fascia top del mercato.
Anche in questo caso gli investitori stanno effettuando una scommessa?
Sì, ma che non guarda necessariamente al futuro a lungo termine della società. Piuttosto ha come primo e talora unico traguardo il momento della quotazione, quando molti investitori passeranno la mano cedendo le proprie azioni al mercato. L’esperienza degli anni più recenti mostra che non sempre i valori conseguiti con l’Ipo sono in linea con gli esborsi degli investitori più recenti e che taluni Ipo sono continuamente ritardati nella speranza di un mercato più favorevole. Mostra anche che le Borse sono piuttosto selettive nei periodi susseguenti gli Ipo, premiando fortemente alcune imprese (come accaduto con Facebook dopo una serie di fibrillazioni e più di recente con Alibaba) e punendone altrettanto fortemente altre, come avvenuto con Zynga e Groupon, cresciute e quotate insieme a Facebook.
L’ombra di una bolla potrebbe calare anche sui social network?
Per generare ricavi sfruttando il proprio potenziale i social network, da Facebook (quotata nel 2011) a Twitter (quotata nel 2013) e alla startup Snapchat, hanno sostanzialmente due vie: vendere dati personali e/o fare e-commerce. Per avere successo devono puntare a un allargamento di tali mercati e/o devono rubare spazi a giganti come Google e Amazon, sperando che l’avvento di legislazioni più restrittive sulla privacy (a partire dall’Ue) non inaridisca la loro più importante fonte di ricavi. Facebook ha dimostrato di sapersi muovere bene, approfittando anche della transizione al mobile. Twitter e Linkedin sembrano arrancare nello sforzo di convertire la loro elevata popolarità in fonti concrete di reddito. Snapchat, valutata recentemente 10 miliardi nell’ambito di un finanziamento privato, ha ricavi ancora molto esigui. Il pericolo specifico di una bolla quindi esiste, ma è a mio avviso un rischio differenziato.
C’è un rischio più generale legato all’andamento della finanza mondiale?
A mio parere sì e con tre incognite ben note: il timore che la Fed statunitense aumenti i tassi di interesse, che periodicamente provoca abbassamenti negli indici generali delle borse; la speranza che viceversa la Bce aumenti la liquidità nell’Ue; il timore che la crisi politico-economica porti all’uscita della Grecia dall’euro (in gergo “Grexit”), con conseguenze difficili da immaginare sul futuro della moneta unica.

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