l sistema delle comunicazioni e il suo formidabile sviluppo tecnologico possono prescindere dalle regole che li governano? La forza espansiva dell’innovazione è tale da rendere ininfluenti gli sforzi, spesso tardivi, della regolazione? Domande alle quali sono state date diverse risposte. Qualcuno ha detto che la storia di internet dovrebbe insegnare che non c’è necessità di regole. Altri, invece, sostengono che sono sufficienti le dinamiche del mercato ed i principi della libera concorrenza o al più una maggiore attività di vigilanza.
In definitiva, per molti la regolazione sarebbe un fenomeno recessivo in un mercato ormai maturo che mal sopporta imposizioni dall’alto. Tutto chiaro dunque? Non proprio. I cultori della “no regulation” dimenticano un particolare: fuori dalla regolazione non c’è più il sicuro porto del diritto della concorrenza.
L’abituale complementarietà tra i due concetti infatti è stata travolta dai cambiamenti radicali che hanno riguardato lo sviluppo delle comunicazioni elettroniche che non rappresentano più un semplice “mercato”, avendo assunto rilievo centrale nell’intero assetto della società. Non c’e bisogno di scomodare studiosi di grido per capire quanto per ciascuno sia essenziale “essere in rete”. Viviamo una vera e propria rivoluzione antropologica in questa permanente connessione. Lo stesso esercizio di diritti fondamentali passa per le diverse articolazioni della filiera digitale e per gli statuti di regole che le riguardano. Reti, social network, device, strumenti che non servono più solo per “comunicare” ma che sono diventati requisiti essenziali per stare in relazione con gli altri, per essere informati, per partecipare alla vita politica.
Così come sono essenziali i principi di garanzia della net neutrality, di circolazione dei contenuti e di lotta al digital divide. Tutto questo porta inevitabilmente ad un ripensamento della regolazione che tende ad allargarsi ad aeree sconosciute. Accanto al tema della conformazione del mercato verso la libera concorrenza compaiono nuove finalizzazioni. Entrano innanzitutto in gioco principi relativi a talune tutele di rilievo costituzionale, quali quelle della riservatezza, del pluralismo, dell’uguaglianza nei livelli di servizio, e si manifestano missioni più politiche come quelle relative alla promozione degli investimenti. Un processo che riguarda anche la Ue che, lungi dal considerare chiusa la partita della regolazione, si avventura a ipotizzare una concentrazione di tutto il potere nella mani della Commissione.
Se prendiamo per buono il paradigma di internet, che non è per nulla territorio di assenza di regole (che sono invece quelle dell’autorganizzazione), dovremmo concludere che la regolazione diventa un esercizio multidisciplinare. Ciò non significa ipertrofia regolatoria, che mal si concilierebbe con la libertà di impresa e la velocità dei processi di innovazione, ma definizione di principi improntati ad una idea di armonizzazione che superi la semplice trasposizione delle direttive europee, quello che Cassese ha chiamato “il diritto amministrativo europeo”, e la malsana legislazione nazionale in materie connesse (in particolare, il diritto speciale della radiotelevisione). Le regole non sono indifferenti e non lo sono soprattutto per il futuro delle comunicazioni elettroniche. In un ecosistema complesso scegliere una strada piuttosto che un’altra può essere decisivo non solo per la libertà del mercato, ma per quella di ciascuno di noi.