L'INTERVISTA

Valletti: “Banda larga, ora spingere la domanda”

L’economista spiega come sfruttare efficacemente le risorse reperite con la ristrutturazione dei fondi Ue: “Fondamentale il ruolo del pubblico per definire le priorità e creare un contesto regolatorio a garanzia della concorrenza. Inefficaci modelli simil-Iri”

Pubblicato il 05 Mar 2013

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Elaborare una solida politica della domanda e investire nella scuola e nella formazione. Secondo Tommaso Valletti – ordinario di Economia all’Imperial College London e all’università Tor Vergata di Roma, membro della Competition Commission britannica – è questa la ricetta per spendere in maniera efficace i fondi Ue.
In Italia il piano di coesione sociale ha reperito 900 milioni per la banda larga (digital divide e ultrabroadband ). Quali errori non si devono compiere per evitarne lo sperpero ?
Chiariamo il punto principale: lo sperpero c’è quando si creano reti ma poi non si sa cosa farne. Digital divide e banda ultralarga sono cose diverse e comportano, dunque, spese diverse. Si ha digital divide quando non esiste una domanda sufficientemente aggregata per attirare interessi commerciali in determinate aree. Lì si possono definire parametri ragionevoli di qualità e prezzo e mettere al bando l’offerta dei servizi. In alternativa, si potrebbero offrire voucher/buoni sul lato della domanda nelle stesse aree con l’obiettivo di aumentare i volumi di spesa. Ovviamente è essenziale individuare quali sono queste aree. Anche sul versante banda ultralarga occorre prima identificare i fallimenti di mercato che si vogliono correggere, altrimenti tutta l’operazione rischia di ridursi semplicemente ad un trasferimento di denaro a imprese private, senza grandi benefici per il sistema Paese. Ma il punto centrale è un altro.
E quale?
Il ruolo che il pubblico può svolgere in questo processo. Bisogna capire come si possono utilizzare efficacemente queste risorse. E, a mio avviso, c’è un solo modo ovvero sviluppare una politica solida dal lato della domanda. Portare banda ultralarga per consentire di scaricare file o visualizzare video su Youtube non mi sembra un grande passo avanti. In Italia manca l’educazione informatica, mancano servizi diffusi su Internet – sia pubblici sia privati – mancano siti web e prestazioni innovative per le piccole aziende: agire ed investire su questi versanti è prioritario. Poi, chi vuole la banda larghissima per “scaricare” si potrebbe pagare la sua connessione e gli investimenti – quelli privati – troverebbero una fonte preziosa di finanziamento.
Il patto di stabilità limita le capacità di investimento degli enti locali che giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo delle reti e, più in generale, nella realizzazione degli obiettivi dell’Agenda digitale. Chiedere una golden rule per investire in telecomunicazioni potrebbe essere utile?
Visti gli abusi che si sono fatti in precedenza e i problemi di indebitamento che questi hanno comportato, capisco i limiti posti dal patto. Nelle Tlc italiane si è creata una situazione di stallo. I privati non investono perché dicono che non c’è domanda; il settore pubblico annuncia che potrebbe investire – vedi il caso della Cassa Depositi e Prestiti – ma non è chiaro di chi sarebbe la proprietà dell’infrastruttura e quali condizioni di accesso sarebbero fissate. A mio avviso, lo scenario peggiore è che i fondi pubblici siano utilizzati per costruire reti che poi di fatto restano private e non regolate, oppure per trasferire più risorse pubbliche ai privati. Ben vengano le reti private e non regolate, a debite condizioni, ma non se i soldi pubblici scarseggiano come oggi. Il pubblico, dal canto suo, dovrebbe evitare grandi annunci per poi tentennare ogni volta che si tratta di tirare fuori soldi. Se le reti a banda larga e ultralarga sono una priorità pubblica si chiedano le deroghe d’obbligo, ed eventualmente, si faccia una rete pubblica con accesso aperto e regolato ai prezzi più bassi possibili. In questo senso il modello australiano potrebbe essere un efficace esempio. Ma se i soldi non ci sono – come allo stato attuale – bisogna smettere di riproporre modelli “simil-Iri”, di cui non è chiara né la governance né la portata innovativa, e si stabiliscano finalmente regole trasparenti perché gli operatori possano competere.
L’Italia si appresta ad avere un nuovo governo. Quale consigli si sente di dare all’esecutivo in tema di Agenda digitale?
La priorità è quella di strutturare un’efficace politica della domanda. E poi – lo dico anche a rischio sembrare un po’ parrocchiale – credo che tutte le strategie digitali debbano partire dall’educazione e dalla scuola. È in questi comparti che vanno concentrate le risorse. Sviluppare reti ultraveloci e abbattere la burocrazia sono obiettivi d’obbligo, ma senza cervelli che funzionano non si va molto lontano.

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