Vivendi e il brusco risveglio dai sogni di Telecom public company

Dopo Telco-Telefonica, la storia si ripete con i francesi. È sempre il socio di riferimento il dominus del capitalismo all’italiana. E ai piccoli azionisti non resta che stare a guardare

Pubblicato il 16 Dic 2015

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Dopo l’assemblea di Telecom Italia di ieri, Vincent Bollerè può veramente cantare vittoria. È riuscito a portare a casa due risultati fondamentali: il congelamento della conversione delle azioni di risparmio in ordinarie e l’ingresso di quattro suoi uomini nel board di TI. Ciò significa che ieri, quindici dicembre 2015, è iniziata per la tormentata storia di Telecom Italia una nuova era: quella targata Vivendi.

Entrato in Telecom in seguito a uno scambio di figurine con Telefonica in conseguenza della cessione di Gvt), Bollorè ha incrementato progressivamente la sua quota dall’iniziale 14,90 per cento sino all’attuale 20,50%.

In molti si sono chiesti del perché di questa salita che in tutto gli è costata circa tre miliardi. La risposta ufficiale è stata che Vivendi crede nel futuro industriale di Telecom e a quello guarda, essendo un investitore a lungo termine e non uno speculatore “prendi i soldi e scappa”.

Sarà anche così, ma intanto senza la forza di quel 20,50% non sarebbe stata stoppata la conversione delle azioni di risparmio e Vivendi sarebbe stata diluita ridiscendendo attorno a quel 14% che aveva all’inizio dell’avventura italiana.

Con la conversione, per tornare ad una quota da azionista di “riferimento” (tradotto: per incidere drasticamente nella gestione di Telecom), avrebbe dovuto mettere ulteriormente mano al portafoglio. Se gli azionisti di risparmio sono rimasti delusi, non lo sono stati per niente i contabili di Vivendi.

Bollorè ha detto di non essere contrario in linea di principio alla conversione delle risparmio. Ha ragione: è difficile giustificare categorie di azioni che hanno fatto il loro tempo. Piuttosto, non lo convincono le “condizioni” del concambio. Vedremo se sarà coerente e i suoi uomini nel cda chiederanno di rimettere la questione all’ordine del giorno. Ci viene voglia di scommettere che si tratta di un rinvio sine die. Vedremo.

Il secondo fronte di vittoria è stato quello sull’integrazione del consiglio di amministrazione. Entrano quattro consiglieri presentati da Bollorè. Tutti francesi. Tra cui tre top manager di Vivendi: l’amministratore delegato Arnaud Roy de Puyfontaine, il direttore operativo Stephane Roussel, il cfo Hervé Philippe. Unica indipendente è Felicité Herzog, con una carriera in bilico fra finanza e industria, oltre che figlia della scrittrice Maurice Herzog e scrittrice lei stessa.

Il fatto che ieri fossero tutti presenti all’assemblea di Telecom, seduti in prima fila a sorbirsi sette ore filate di discussione, la dice lunga sulla convinzione dei vertici di Vivendi che il quartetto ce l’avrebbe fatta a passare, nonostante l’opposizione dei fondi influenzati dai proxy contrari all’integrazione del consiglio con gli uomini del gruppo francese. E a potere di conseguenza partecipare oggi a Milano al consiglio di amministrazione chiamato a valutare il piano industriale di Telecom Italia.

Non è chiaro da dove venisse questa convinzione di vittoria quando moltissimi analisti la vedevano diversamente. Difficile attribuirla alla supponenza. Ancora di più ad accordi preventivi con qualche fondo. Altrimenti – e il rappresentante della Consob era presente in assemblea a vigilare – l’obbligo di Opa sarebbe dietro l’angolo.

Ma Bollorè si sentiva evidentemente sicuro di non mandare allo sbaraglio i suoi uomini all’assemblea di Milano, E così pensava de Puyfontaine che si è assunto il ruolo di attaccante di punta di Vivendi ed in assemblea ha giocato fino in fondo con abilità, suadente e deciso al contempo, la sua partita davanti a tutti gli azionisti e al management di Telecom. Vincendola.

La bocciatura dell’esonero dal divieto di concorrenza dei tre consiglieri con cariche operative in Vivendi (de Puyfontaine, Roussel, Philippe) stando alle dichiarazioni “a caldo” del dopo l’assemblea viene presentata come un piccolo incidente di percorso, più che altro un fastidio da lasciare risolvere agli avvocati. Noi non ne saremmo così sicuri. Si rischiano scintille e intoppi di ogni genere. Docet la precedente esperienza del vertice di Telefonica seduto nel consiglio di TI. Allora i vincoli venivano dall’Antitrust brasiliano, stavolta degli stessi azioni che non hanno dato la liberatoria sul divieto di concorrenza.

Ma perché proprio ora è arrivata la richiesta di integrare il board di TI quando Vivendi avrebbe potuto farlo molto prima? de Puyfontaine spiega che l’assemblea per la conversione delle risparmio costituiva la prima occasione da cogliere. È vero, ma non convince del tutto. All’inizio Vivendi aveva scelto un atteggiamento low profile, tanto che sembrava che non ci sarebbero stati scossoni nella composizione del cda almeno fino all’assemblea di bilancio a primavera del 2016, se non addirittura alla scadenza naturale nel 2017.

Cosa nel frattempo ha convinto Vivendi ad andare all’attacco? Preoccupazioni sull’unità di direzione di Telecom cui indirettamente possono fare pensare l’enfasi sull’unità di comando più volte ribadita da de Puyfontaine? Divergenze incolmabili sulla strategie messe in campo dal management di TI? Ufficialmente sono state sempre negate ed anzi per i vertici di TI ci sono state solo parole al miele. Oppure la mossa è dovuta a un certo nervosismo per le mosse di Xavier Niel la cui ambigua ma potenzialmente forte presenza nel capitale di TI rischia di diventare quella di un convitato di pietra?

Tutto è possibile. Di certo, non è completamente convincente che l’unica motivazione – pure fondata – sia quella che un azionista col 20% senza rappresentanza in cda è una decisa anomalia.

Di sicuro, ieri è parsa finire un’ambizione. Quella del management e del consiglio di amministrazione di Telecom Italia di essere alla guida di una public company pura. Più che un’ambizione, un’illusione. Un sogno durato il tempo di un interregno: fra il dominio di Telco-Telefonica a quello di Vivendi. Anche se la mancanza di liberatoria sulla non concorrenza dei consiglieri Vivendi potrebbe aprire la strada a guerriglie legali e formali non si sa quanto benefiche per la gestione della società.

Comunque, da oggi è con questa nuova realtà che vanno fatti i conti. Il “socio di riferimento” è il king maker del capitalismo italiano, anche in salsa d’Oltralpe. È questa “l’unità di comando” di cui ha parlato de Puyfontaine?

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